Non mi succede molto spesso, ma talvolta mi sento talmente a contatto con le mie emozioni che mi trovo a domandarmi... che altro serve?
In questo momento, che sto ascoltando musica splendida da parte di una band che mi ha fatto ricollegare con tutto quello che avevo dentro, penso... che dovremmo davvero essere più onesti con noi stessi.
Il mondo esterno esiste e le fate no. Il dolore esiste e l'eterna pace no.
Ma se tutti fossimo consapevoli che ognuno, abbracciato alla persona che ama o da solo, al buio della propria stanza, si scioglie in lacrime... se ricordassimo la sensazione di quel nodo in gola che svanisce, forse riusciremmo a far diventare le cose più facili.
Di recente mi è venuto in mente un altro aspetto negativo dei Social Network.
Impediscono di "lasciare andare" il passato.
Tutte le persone che hai conosciuto sono sempre lì, a portata di click.
Tutte le foto che hai scattato sono pronte a esserti sbattute in faccia.
Forse era meglio quando dopo una splendida vacanza al mare ti salutavi, ti scambiavi gli indirizzi, ma in cuor tuo sapevi che non avresti rivisto mai più quella persona.
Ti avrebbe insegnato a "lasciar andare".
Invece adesso ce li portiamo tutti dietro. Tutti.
Ci appesantiamo ogni giorno che passa di questo bagaglio di ricordi, immagini, suoni, e non siamo più in grado di distaccarcene.
Anche il modo di fare le foto è completamente cambiato.
È una cosa che noto tantissimo. Ora guardo le foto e mi è perfettamente chiaro, dall'espressione, dagli occhi, dal tipo di scatto, che quelle non sono state scattate per ricordo o per catturare ciò che il momento speciale può donare. Sono foto scattate per le persone che le vedranno. Le persone che quindi sapranno della partecipazione di quella persona a quel momento, a quei trionfi.
Forse è per questo che ancora non mi sono cancellato dai Social Network, nonostante il pensiero mi ronzi spesso in testa.
Perché ho paura di "lasciar andare" tutte quelle persone lontanissime, nello spazio come nel tempo, che però in questo modo sono diventate pure parte della mia quotidianità. Che pure mi fa piacere rivedere, sapere cosa fanno, vedere che spunti possono darmi.
Pur non essendo mai state realmente parte della mia quotidianità, se non per qualche settimana.
Una volta, lavorando in villaggio, ho conosciuto una grafologa.
Questa, dopo aver analizzato la mia scrittura (quindici righe a parlare di Batman e lei dice che ha solo guardato il modo in cui scrivevo le lettere? Non ci voglio credere), mi ha spiegato che scrivere alcune lettere in un certo modo potrebbe indicare diversi aspetti del nostro carattere o del nostro umore.
Per esempio, se scriviamo la "T" con la stanghetta orizzontale più in basso rispetto a dove finisce la stanghetta verticale, vorrebbe dire che abbiamo bassa autostima/che siamo tristi/ecc.
Mi ha anche detto che, secondo alcuni grafologi, forzarsi a scrivere le lettere in maniera diversa potrebbe essere un primo passo per influenzarci "dentro" e cominciare a cambiare questi aspetti della nostra personalità.
Quindi, se dovessimo iniziare a fare la stanghetta orizzontale della "T" più in alto, addirittura più in alto della fine della stanghetta verticale, e in via del tutto deliberata, questo dovrebbe essere un auto-incoraggiamento a essere più decisi/lanciati/sicuri di noi.
È stata la prima volta in cui qualcuno mi ha esposto al concetto che ciò che facciamo può influenzare notevolmente ciò che proviamo, ciò che siamo. Le volte che mi sentivo triste, uscivo di casa e aprivo il portone con decisione invece che con mosceria. Facevo bene attenzione a forzarmi nel guardare avanti a me, oppure in alto, sui palazzi o il cielo, invece che per terra.
Non so se queste cose funzionino o no (in realtà penso di no, ma perché chiudere delle porte a una possibilità di cambiamento?), ma la conclusione a cui sono giunto è che in ogni caso è sempre meglio fare qualcosa: decidere di fare qualcosa e fare qualcosa per quel preciso motivo che tu hai scelto.
Nei recenti giorni di quarantena, tutto questo è stato messo a dura prova. Perché in realtà la cosa a cui dovevo forzarmi era stare fermo. Mi ha fatto ripensare a quando sono stato molto depresso, a quando ho avuto pensieri suicidi. Mi sentivo talmente stanco, risucchiato di qualsiasi energia, che non avevo nemmeno voglia di suicidarmi. Speravo solo che magari, stando così immobile, magari sarei potuto evaporare lentamente, o qualcosa del genere.
È disarmante notare con quanta facilità si possa andare vicino a ricadere nel soliti buchi dove siamo finiti in passato. Ma la cosa bella del crescere - cose che blaterano i Rafiki come l'esperienza, i trent'anni, e via così - è proprio che non ci caschi più. O almeno, non ci caschi come l'altra volta. È una puntata di una serie TV già vista. O un film interattivo di Netflix. Stavolta cambi la decisione.
Una delle cose che mi ha genuinamente stupito del "crescere" è che quando passeggi per strada ti trovi a cambiare l'empatia che provi per le persone. Prima era empatia verso i bambini (che bel gioco, che hanno!), poi verso i ragazzini (che figa quella giacca di jeans!), quindi verso gli universitari (che aria intellettuale...), e per finire arrivi a essere un trentenne che quasi ripugna tutte queste precedenti categorie, perché... quante falle, a quei tempi.
Molto meglio ora.
Mi aspetto di essere un settantenne saggio come Gandalf.