(Vincent Cavanagh)
giovedì 13 dicembre 2012
People
"Philosophy has always been part of my life. Life is too beautiful to be negative. I have a very acute understanding of what it is to be alive because I’ve experienced so much death. And been through things that have reminded me constantly of how important it is that I am still breathing. I can’t get away from that and it pisses me off sometimes. But it makes me realize how much I respect life and people. It’s ultimately all just people. That’s all I have."
martedì 11 dicembre 2012
Com'eri ieri?
Io mi chiedo come si fa a rivedere la gente dopo tanto tempo e pensare che "non è cambiata per niente".
Io cambio ogni giorno e neanche mi ricordo come ero ieri.
sabato 8 dicembre 2012
Carburante
Quanto mi dispiace per quelli che non capiscono. Davvero.
Lo spunto stavolta viene da una simpatica tipetta a cui l'altro giorno ho sentito di dover prestare un cd. Si trattava di "You Go Bird", di Petter Carlsen, un cantautore norvegese molto delicato che mi piace molto. Ho avuto anche la fortuna di incontrarlo e di farci due chiacchiere, ed è stato in quell'occasione che mi ha anche autografato il libretto del cd.
Per questo motivo non le posso lasciare il CD per sempre. Cioè. È più di un bel ricordo. Però ero anche convinto che quella musica le potesse proprio fare bene.
Insomma, in soldoni, le ho dato il cd ma le ho detto pure che doveva ridarmelo.
Lei però ha capito tutto subito, senza bisogno che le spiegassi niente.
"Ho capito: è un regalo emozionale, più che fisico".
Esatto, esatto. È sempre così, è davvero quello il punto, quando consiglio musica.
"Ti passo questa musica perché credo davvero che tu adesso dovresti poter provare queste sensazioni, perché adesso da qui potresti trovare tanti spunti..." e via così. Mica perché "Oh senti quant'è forte 'sta robba!!! Non vedo l'ora di impazzzzzire ballandola sui tettttttti in disco!!!"
Vivere e fidarsi delle proprie sensazioni è una cosa che ho imparato ascoltando musica, e non è affatto qualcosa che ho assimilato da molto.
Da un po' di tempo sto leggendo molto meno di prima. Non ricordo se l'ho già scritto qui: venivano sempre più spesso a galla situazioni in cui leggevo delle frasi e pensavo: "Ecco!!! Sì!!! Cacchio, è proprio così che la penso, tutta una vita a girare intorno a una sensazione ed ecco che me la ritrovo scritta in poche parole in maniera perfetta e concisa! Fantastico!!!", solo che poi rosicavo, perché ero arrivato alla "soluzione" tramite una scorciatoia e non da solo.
Un po' come quando prendi la tangenziale invece della panoramica.
Un po' come quando ci metti un'ora per escludere tutte le alternative all'indovinello per arrivare alla domanda che di solito fanno tutti subito: "Ma è stata assassinata da qualcuno?"
Invece, ho cominciato a guardare molti più film e telefilm.
Quelle sono belle storie, hanno espressioni, hanno musica, e non trovi scritte le frasi così nero su bianco: hai lo spunto che mischiato con te provoca una reazione... e poi la conclusione la trai tu.
Questo, e uscire molto di più con tante persone diverse. Mischiare gruppi di amici diversi - cosa che non avevo mai voluto fare prima.
Sono cose per me un po' strane, ma scopro che mi piacciono.
C'è una piccola cosa che in tutto questo non mi convince: sento di stare diventando molto più uguale agli altri di quanto non sia mai stato.
Ho sempre puntato tutto sulla mia unicità, e adesso anch'io guardo i telefilm che guardano gli altri, anch'io esco tutte le sere.
Credo di dovermi un po' ricollocare.
Non so se ci sto perdendo o guadagnando, in questo cambio.
Però sembra che mi piaccia, quindi siamo cautamente ottimisti.
È anche un periodo in cui sto capendo molte più cose su me stesso.
Credo di aver per esempio interpretato quel binomio imprescindibile che gira e rigira finivo sempre per ritrovare dentro di me.
Alterno momenti in cui sono una locomotiva, pigliopartoechimifermapiù, machihabisognodidormiretre-quattrooredisonnobastanoeavanzano, a momenti in cui sono riflessivo quasi fino alla passività.
Il punto è che io mi annoio presto. Qualsiasi cosa faccia, la lascio - cazzo - in sospeso così, quando mi pare. Non che poi non mi vergogni e non capisca che sto sbagliando, che le cose quando le cominci devi anche finirle, però oh, che ci devo fare, basta, non mi va più. Non parte più la scintilla. Non riesco a finire tutto in maniera meccanica, devo essere convinto.
In un altro post poco più giù ricordo di aver scritto di come a lungo mi sia sentito - e a tratti ancora mi senta - vulnerabile e autocritico.
Quest'altro binomio - sentirmi una merda in qualsiasi cosa mi cimenti / il bisogno di migliorare facendo sempre quanto più possa tirare fuori dalle mie capacità - mi consente spesso di finire col fare bei lavoretti, siano cose importanti o semplici regali di Natale, mi piace pensare che spesso ci prendo e che riesca addirittura a sfuggire alla banalità.
Però sì, ci sono quelle volte che mi rompo a metà e lascio perdere tutto.
Qual è la soluzione?
Ho capito di essere come un vampiro: mi cibo di emozioni, di spunti, di sensazioni, di parole, di occhi, di capelli, di idee, persino di versacci che uno fa quando si stiracchia.
Sono il mio carburante. Finché ne ho di fresche, vado avanti a palla di cannone.
Quando esaurisco il carburante, mi fermo.
E parto alla ricerca di nuovo carburante. Lasciando quindi in sospeso le cose che nel mentre stavo facendo.
Parto alla ricerca di altri spunti per ricaricarmi.
Per questo ho capito che, qualsiasi cosa vorrò fare nella vita, deve essere in grado di mettermi alla prova in maniera diversa, con dinamicità. Altrimenti sarò il primo a soffrirne.
E poi quanto mi dispiace per quelli che non capiscono.
Sindrome estiva?
Della serie: "ma quand'è che le cose sono cambiate?"
Prima, da solo stai benissimo, e una serata a casa a leggere o a guardare un film è pari (se non meglio) ad una serata fuori.
Poi, ti ritrovi a uscire tutti i giorni della settimana, e quando ti capita di rimanere a casa, ci stai proprio male.
Ragazze, sbrigatevi... tra un po' di tempo potrei ritrovarmi omosessuale senza manco accorgermene e voi avrete perso per sempre la vostra chance!
venerdì 7 dicembre 2012
Si va sempre avanti
Stamattina è capitato che tornassi a leggere quello che avevo scritto un po' di tempo fa, quando ho saputo quello che avevi fatto. Mi sono sembrate sempre cose scritte da qualcun altro, come se quelle cose fossero uscite da un estraneo e non da me. Credo significhi che quei pensieri li rifiuto, ancora non li ho accettati. Forse c'entra un po' il senso di colpa per non esserci stato.
Forse, se ci fossi stato, sarei riuscito a dirti anche soltanto quella parolina che ti avrebbe fatto vedere le cose sotto un'altra luce, e avresti cambiato idea.
O forse no. Quando prendi queste scelte, sei più come il vecchio pavimento di legno tarlato in una soffitta dove vengono spostati tutti i mobili vecchi. Non cambia tanto se ci aggiungi o ci togli una sedia, il legno è tarlato e prima o poi, sotto tutto quel peso, crollerà.
Però è dura. È dura pensarci adesso, mesi dopo, e vedere che, ovviamente, il mondo è andato avanti.
Perché il mondo va sempre avanti. Con te, o senza di te.
Ed è questo che mi fa male.
Vedere che è andato avanti senza di te e pensare: ma sarebbe stato così diverso, il mondo, se tu ci fossi stato ancora?
Apro il sito di Repubblica.
Credo proprio di no.
È andato avanti così, indifferente.
L'unica cosa che hai cambiato nel mondo è la sofferenza che hai portato in chi ti conosceva.
Potevi anche scegliere di restare.
Forse, se ci fossi stato, sarei riuscito a dirti anche soltanto quella parolina che ti avrebbe fatto vedere le cose sotto un'altra luce, e avresti cambiato idea.
O forse no. Quando prendi queste scelte, sei più come il vecchio pavimento di legno tarlato in una soffitta dove vengono spostati tutti i mobili vecchi. Non cambia tanto se ci aggiungi o ci togli una sedia, il legno è tarlato e prima o poi, sotto tutto quel peso, crollerà.
Però è dura. È dura pensarci adesso, mesi dopo, e vedere che, ovviamente, il mondo è andato avanti.
Perché il mondo va sempre avanti. Con te, o senza di te.
Ed è questo che mi fa male.
Vedere che è andato avanti senza di te e pensare: ma sarebbe stato così diverso, il mondo, se tu ci fossi stato ancora?
Apro il sito di Repubblica.
Credo proprio di no.
È andato avanti così, indifferente.
L'unica cosa che hai cambiato nel mondo è la sofferenza che hai portato in chi ti conosceva.
Potevi anche scegliere di restare.
venerdì 2 novembre 2012
Libero, se vuoi...
È da diverso tempo che in relazione a come alcuni amici si comportino finisco a pensare a quanto siamo tutti diversi. Non nel senso Disney, bensì nel senso di quanti diversi bisogni abbiamo, punti deboli, ferite da curare.
Mai come in questi giorni penso a quanto è strano che quello che per alcuni è scontato, per altri non solo non lo è affatto, ma è pure difficile. Vista in quest'ottica, l'idea di "costruirci" giorno per giorno mi sembra ogni momento più complessa.
E come spesso succede quando hai queste riflessioni un po' vaghe, ad un certo punto cogli che non si trattava solo di una "riflessione vaga", ma di un qualcosa di preciso, un cerchio che ad un certo punto... zak, si è chiuso.
Ho capito all'improvviso un'impostazione mentale che ho sempre avuto. Ho sempre pensato - sempre - che gli altri sapessero qualcosa più di me. E non mi riferisco alle cose importanti, ma più alle cose stupide. Cose come un modo più veloce per rifare il letto, come fare pipì nel water senza fare rumore, come apparecchiare e sparecchiare più efficientemente, tagliarsi meglio e con più praticità le unghie della mano destra, e via dicendo.
Non so da dove possa essermi venuta fuori quest'idea. Ogni volta che penso alla mia famiglia e a come sono stato tirato su, credo che in mezzo a tantissime cose belle, fortunate e giuste ci sia stato anche qualcosa di "sbagliato" da qualche parte nella mia formazione umana, ma si tratta di un terreno un po' nebuloso, per ora.
Eppure quest'idea me la sono portata dentro per davvero tanto tempo.
Gli altri erano sempre un passo avanti a me, indipendentemente da chi fossero, che scuola facessero, quali cose preferissero fare nel finesettimana.
Ad un certo punto, è successo che nel mio percorso abbia voluto comunque cominciare a lavorare per migliorarmi. Eppure ero sempre, ancora, inevitabilmente dietro a tutti.
Credo che tutto questo abbia cominciato a finire ad Arbatax, nella mia prima stagione nell'animazione, estate 2010. In uno Staff di più di 50 persone, ero fermamente convinto che avrei dato il meglio di me, ma che sarei (ovviamente) stato una nullità in confronto agli altri, che erano sicuramente meglio disposti, più bravi, con più esperienza, e via dicendo.
Lì è cambiato tutto. Dopo una settimana, ricordo ancora la sensazione di: "Ehi... però non sto andando così male."
E al contrario tanti altri intorno a me non ce la facevano, si dovevano fermare, mollavano addirittura.
Non è un post su come è poi andata l'estate 2010, ma penso di poter dire che quella è stata probabilmente la parentesi in cui sono andato più forte, nella mia vita. Il motto del nostro capovillaggio era: "Siete tutti delle merde". E ci pigliava, io in effetti mi sentivo una merda ogni volta che dovessi rivolgere la parola a qualcuno.
Eravamo tutti delle merde, ma il risultato si doveva portare a casa, e dovevamo dare il meglio di noi. Ogni errore veniva cancellato di settimana in settimana, perché con gli ospiti nuovi nessuno sapeva quello che avevi sbagliato la volta prima. Valeva anche l'opposto: ogni settimana perdevi le tue certezze, misurarti costantemente col nuovo e venirne sempre a capo. Ed era davvero un continuo migliorarsi.
Vedere che, in fondo, non me la cavavo così male, è stato semplicemente fondamentale.
E sto capendo in questi giorni - in effetti, l'ho capito ora, con questa "chiusura del cerchio" - che abbiamo diverse necessità che neppure comprendiamo davvero. E queste necessità ci portano a fare cose anche piuttosto strane.
Ho capito quest'imposizione mentale, ma non credo proprio di averla completamente superata.
Non so da dove mi sia venuta, ma io ho vissuto con una paura che potenzialmente mi bloccava in ogni azione. A oggi, se provo a ripensarci, ho ancora tantissimi strascichi di questa cosa.
Ho paura di parlare al telefono, per esempio.
Sono assolutamente incapace di chiedere aiuto, anche quando c'è bisogno.
Più che "imparare a cavarsela da soli", la vita è capire la guerra che hai dentro.
Quelle fuori, sono solo piccole battaglie che ti aiuteranno a vincerla.
Mai come in questi giorni penso a quanto è strano che quello che per alcuni è scontato, per altri non solo non lo è affatto, ma è pure difficile. Vista in quest'ottica, l'idea di "costruirci" giorno per giorno mi sembra ogni momento più complessa.
E come spesso succede quando hai queste riflessioni un po' vaghe, ad un certo punto cogli che non si trattava solo di una "riflessione vaga", ma di un qualcosa di preciso, un cerchio che ad un certo punto... zak, si è chiuso.
Ho capito all'improvviso un'impostazione mentale che ho sempre avuto. Ho sempre pensato - sempre - che gli altri sapessero qualcosa più di me. E non mi riferisco alle cose importanti, ma più alle cose stupide. Cose come un modo più veloce per rifare il letto, come fare pipì nel water senza fare rumore, come apparecchiare e sparecchiare più efficientemente, tagliarsi meglio e con più praticità le unghie della mano destra, e via dicendo.
Non so da dove possa essermi venuta fuori quest'idea. Ogni volta che penso alla mia famiglia e a come sono stato tirato su, credo che in mezzo a tantissime cose belle, fortunate e giuste ci sia stato anche qualcosa di "sbagliato" da qualche parte nella mia formazione umana, ma si tratta di un terreno un po' nebuloso, per ora.
Eppure quest'idea me la sono portata dentro per davvero tanto tempo.
Gli altri erano sempre un passo avanti a me, indipendentemente da chi fossero, che scuola facessero, quali cose preferissero fare nel finesettimana.
Ad un certo punto, è successo che nel mio percorso abbia voluto comunque cominciare a lavorare per migliorarmi. Eppure ero sempre, ancora, inevitabilmente dietro a tutti.
Credo che tutto questo abbia cominciato a finire ad Arbatax, nella mia prima stagione nell'animazione, estate 2010. In uno Staff di più di 50 persone, ero fermamente convinto che avrei dato il meglio di me, ma che sarei (ovviamente) stato una nullità in confronto agli altri, che erano sicuramente meglio disposti, più bravi, con più esperienza, e via dicendo.
Lì è cambiato tutto. Dopo una settimana, ricordo ancora la sensazione di: "Ehi... però non sto andando così male."
E al contrario tanti altri intorno a me non ce la facevano, si dovevano fermare, mollavano addirittura.
Non è un post su come è poi andata l'estate 2010, ma penso di poter dire che quella è stata probabilmente la parentesi in cui sono andato più forte, nella mia vita. Il motto del nostro capovillaggio era: "Siete tutti delle merde". E ci pigliava, io in effetti mi sentivo una merda ogni volta che dovessi rivolgere la parola a qualcuno.
Eravamo tutti delle merde, ma il risultato si doveva portare a casa, e dovevamo dare il meglio di noi. Ogni errore veniva cancellato di settimana in settimana, perché con gli ospiti nuovi nessuno sapeva quello che avevi sbagliato la volta prima. Valeva anche l'opposto: ogni settimana perdevi le tue certezze, misurarti costantemente col nuovo e venirne sempre a capo. Ed era davvero un continuo migliorarsi.
Vedere che, in fondo, non me la cavavo così male, è stato semplicemente fondamentale.
E sto capendo in questi giorni - in effetti, l'ho capito ora, con questa "chiusura del cerchio" - che abbiamo diverse necessità che neppure comprendiamo davvero. E queste necessità ci portano a fare cose anche piuttosto strane.
Ho capito quest'imposizione mentale, ma non credo proprio di averla completamente superata.
Non so da dove mi sia venuta, ma io ho vissuto con una paura che potenzialmente mi bloccava in ogni azione. A oggi, se provo a ripensarci, ho ancora tantissimi strascichi di questa cosa.
Ho paura di parlare al telefono, per esempio.
Sono assolutamente incapace di chiedere aiuto, anche quando c'è bisogno.
Più che "imparare a cavarsela da soli", la vita è capire la guerra che hai dentro.
Quelle fuori, sono solo piccole battaglie che ti aiuteranno a vincerla.
martedì 2 ottobre 2012
Incidenti (Solitudine Pt. 2)
Qualche tempo fa, il Policlinico di Roma è stato un po' la mia seconda casa. Per diverse ragioni, ci sono finito un giorno sì e l'altro pure, a ogni orario possibile.
La cosa che mi ha più colpito è stato vedere nella stessa sala d'attesa tante persone differenti: uomini e donne di diverso ceto sociale, bianchi, neri, da soli, accompagnati, vestiti con stracci e vestiti eleganti.
Mi piace molto osservare le persone e come esse reagiscano in diverse situazioni, e non ho potuto fare a meno di farlo anche ora. E mi sono sorpreso nel vedere tipologie di persone che in altri contesti si sarebbero probabilmente schifate a vicenda, qui invece farsi forza, aiutarsi, addirittura confortarsi, scherzare insieme, sdrammatizzare.
C'era chi era sdraiato sul lettino con una gamba insanguinata, chi si teneva una mano evidentemente rotta, chi semplicemente si era sdraiato per terra e dormiva e chi, ancora nel suo vestito più scollato, tornava da quella che doveva essere una festa indimenticabile e che invece ricorderà per altri motivi.
Come sempre, la cosa che più ti scava dentro delle persone, sono gli occhi.
Spesso le persone non si accorgono di quanto grave sia qualcosa, prima che succeda proprio a loro. E in realtà, nessuno comprende davvero subito la gravità di un qualcosa, anche quando gli succede.
Succede solo che capisci che ti è successo qualcosa. Qualcosa di brutto, qualcosa di storto, qualcosa che non dovrebbe essere così, e adesso le cose sono cambiate rispetto a prima. È una sensazione molto profonda che sicuramente tutti abbiamo provato, ma è strano come, andando avanti con le esperienze, ti accorgi che questa stessa sensazione di straniamento sia sempre la stessa, anche nelle situazioni più disparate.
La senti quando all'esame il professore ti chiede qualcosa che non sai, la senti quando ti si blocca il ginocchio, la senti quando tua nonna comincia a darti dei lei, e la senti quando ti ritrovi in una sala d'attesa d'ospedale, in compagnia di una persona che conosci e tanti sconosciuti.
Ogni volta che la senti è più o meno forte, ma la riconosci perché ha un suo marchio inconfondibile, e poi ogni volta ti sembra di ritrovare un vecchio amico, di cui non sentivi la mancanza, ma che in fondo è stato abbastanza dentro di te da farti ammettere che ti conosce bene.
Succede di solito in quei momenti che tu ti senta estremamente più vicino agli sconosciuti, però, piuttosto che a quell'unica persona che all'ospedale ti ci ha accompagnato. La persona che ti è vicino è lì per aiutarti, per non farti sentire solo, certo, ma non ha quel qualcosa negli occhi. È troppo distante da quello che stai provando per starti realmente vicino.
Non le si legge, negli occhi, quella sensazione che tu sai di avere ben dipinta sul volto, e che leggi chiarissima anche negli occhi degli altri.
Quella sensazione che, puf, un attimo prima andava tutto bene, e adesso invece, come un semplice clic di un pulsante, on-off, qualcosa è cambiato. In maniera netta.
Tu la senti. Sai che gli altri la sentono. Sai che siete inevitabilmente tutti legati da quella sensazione, e i vostri accompagnatori ne sono invece inesorabilmente chiusi fuori.
E in quel momento, con quegli altri sconosciuti, ci parli. Non con le onde sonore di una voce, ma con un altro tipo di onda comunicativa, che ti fa capire che tutti quanti avete in qualche modo dato il vostro commiato a qualcosa. Chi in maniera più o meno grave. Avete capito, e state piano piano accettando, che le cose sono cambiate. Questo percorso di accettazione è qualcosa di davvero unico di volta in volta e in ogni momento, e penso che ci sia qualcosa di poetico addirittura, in esso.
C'è stato un momento, anni fa, in cui ho avuto un brutto incidente. Ancora mi domando come sia stato possibile che nessuno si sia fatto male, quando potevamo tranquillamente lasciarci tutti le penne.
Di solito, quando mi capitava di raccontarne, dicevo sempre di ricordarmi nitidamente il "prima" e il "dopo", ma mai l'impatto del "durante".
In realtà, quel momento di quest'incidente mi è rimasto sempre in mente in maniera gelida e nitida, ma l'avevo sempre considerato come "fuori" dalla realtà dei fatti.
Ci si riferisce spesso a momenti e situazioni profonde come a un qualcosa che ti segna, che ti marchia: io in questo caso direi che ne sono stato ferito, tagliato, lacerato.
Sì, era sempre quella sensazione di prima: e credo di averla vista davvero in faccia per quella prima e, per ora, unica volta. Dicevo che esistono diversi gradi in cui la avverti, ma che capisci che è sempre lei. Ecco, quella volta, sono convinto, ho raggiunto quasi il fondo del pozzo, e l'ho vista. Ho visto lei, non una sua sfumatura.
Mi piace pensare, e credo effettivamente, di non aver visto davvero "lei", con i suoi reali contorni. Perché sono stato fortunato e sono ancora qui. Sono altri i momenti in cui, forse, puoi avere un contatto ancora più ravvicinato con questa sensazione.
Dicevo di questo... momento.
C'è stato questo momento in cui sono stato disconnesso dal tempo e dalla realtà.
E ho anche provato a chiedermi... ma come si fa a "ricordarsi"... una cosa che non c'è?
È stato un attimo. Un attimo brevissimo. Lo immagino come con la lucentezza dell'argento, ma al suo opposto, la sua antitesi.
È stato il momento dell'impatto. Giusto un battito di cuore. Credo di aver perso la mia individualità, per quel momento, e sentirmi a contatto dell'indefinito.
Non ho visto una luce, non ho visto un tunnel, non ho sentito della musica, non mi sono "visto" da fuori, né ho avuto un "best-of" della mia vita che mi scorreva davanti.
Questo, ho sentito. Il ritrovarmi ancora con quella sensazione, ora più forte che mai: e mi sono scoperto non spaventato. Mi sono accorto che era sempre lei, e mi sono accorto di averla in realtà già accettata altre volte, a piccole dosi, per cose meno importanti, come un esame andato male.
Mi sono ritrovato a guardare un freddo specchio che non rifletteva nulla. Era la buia, silenziosa, spassionata logica della fine.
La vita può davvero essere semplice come un pulsante: "On-off".
Ricordo che quando quel momento è passato, quando ho ricominciato a sentire cose dalle mie orecchie, quando ho cominciato a sentire la paura, le grida degli altri, e un po' di dolore, quando ho ricominciato a vedere cose intorno a me, ricordo una sensazione assurda e quasi inebriante di gioia.
Ero stato travolto dalla felicità di essere tornato da quel buco, e di essermi lasciato alle spalle quella sensazione di nulla, perché ero vivo, io ero reale, ero di nuovo reale dopo quell'attimo di zero assoluto.
Forse mi sono per un attimo affacciato sulla vera importanza delle cose.
Come anche un semplice sguardo possa essere significativo. Come un semplice "Sai, con te è le cose sono più divertenti" possa essere la cosa più bella del mondo.
Non so, francamente, perché tutte queste sensazioni mi siano tornate addosso ora.
So che l'ascoltare storie può avere un potere immenso, perché c'è un'immensa verità nelle storie che ti vengono raccontate, anche se si tratta di filmacci di paura o di horror di serie b. So che tutto questo viene detto solo "incidente", eppure guarda quanto c'è dietro.
Ma questa è un'altra storia, per un altro post che sto rimandando da diversi mesi, ormai.
Esiste una sensazione opposta a quella che, per un attimo, ho visto la sera di quell'incidente: la consapevolezza che, in realtà, noi tutti non siamo così diversi, anche se facciamo di tutto per frapporre distanze tra noi e gli altri.
E lo capisci quando, in ospedale, vedi gli sconosciuti farsi forza: sono solo quelli, gli attimi in cui capisci che le cose davvero importanti sono altre, come il contatto umano, la vicinanza con qualcuno che ti comprenda e che ti capisca...
... il bisogno di non sentirsi soli.
Forse mi è tornato tutto in mente ora perché sono giunto a questa conclusione.
Quella sensazione buia e fredda, quel sentirsi distaccati, è sempre la solitudine.
Una sensazione che è sempre in noi, perché siamo sempre soli, dal momento in cui veniamo al mondo fino a che ce ne andiamo. È la nostra scelta, quella di accompagnarci con qualcuno, di scegliere compagni di viaggio simili a noi, che ci capiscano, che ci confermino continuamente che no, che in realtà possiamo non essere soli, possiamo andare avanti, perché vale la pena farlo, anche solo per quell'attimo, quel sorriso, quello sguardo quando capisci che anche quello sconosciuto prova le stesse cose che provi tu.
E allora cazzo. Se prova le stesse cose che provi tu, non sei davvero solo.
Ed ecco che la paura più grande è sconfitta.
Non possiamo scappare dalla solitudine, non possiamo staccarla da noi e non possiamo annientarla, perché la solitudine è sempre con noi ed è in noi. Ma proprio perché è sempre con noi, altrettanto sempre possiamo affrontarla, fronteggiarla, contrapporle qualcosa, qualsiasi cosa. E sono davvero tante, le cose più belle di quella sensazione.
Anche questo è un qualcosa che trovo confortante. In qualunque momento si può fare qualcosa, con la solitudine, e non è mica qualcosa che puoi dire per molte altre cose.
Per questo non bisogna mollare mai mai mai.
Perché ci si sente soli, è vero: ma se ti senti solo è perché c'è una compagnia che ti manca.
Di solito, i buchi dei puzzle si riempiono.
Io, per esempio, sento che avrei ancora un paio di cose da scrivere, ma ho appena letto che su Rai 5 danno la replica di una bella intervista a Gigi Proietti.
Credo proprio che andrò a vedermela. E sono sicuro che quando avrò finito, non avrò più addosso la più che normale sensazione che ho addosso ora, che in effetti è tornata a farmi visita ancora. :-)
Grazie a tutti, per esserci.
La cosa che mi ha più colpito è stato vedere nella stessa sala d'attesa tante persone differenti: uomini e donne di diverso ceto sociale, bianchi, neri, da soli, accompagnati, vestiti con stracci e vestiti eleganti.
Mi piace molto osservare le persone e come esse reagiscano in diverse situazioni, e non ho potuto fare a meno di farlo anche ora. E mi sono sorpreso nel vedere tipologie di persone che in altri contesti si sarebbero probabilmente schifate a vicenda, qui invece farsi forza, aiutarsi, addirittura confortarsi, scherzare insieme, sdrammatizzare.
C'era chi era sdraiato sul lettino con una gamba insanguinata, chi si teneva una mano evidentemente rotta, chi semplicemente si era sdraiato per terra e dormiva e chi, ancora nel suo vestito più scollato, tornava da quella che doveva essere una festa indimenticabile e che invece ricorderà per altri motivi.
Come sempre, la cosa che più ti scava dentro delle persone, sono gli occhi.
Spesso le persone non si accorgono di quanto grave sia qualcosa, prima che succeda proprio a loro. E in realtà, nessuno comprende davvero subito la gravità di un qualcosa, anche quando gli succede.
Succede solo che capisci che ti è successo qualcosa. Qualcosa di brutto, qualcosa di storto, qualcosa che non dovrebbe essere così, e adesso le cose sono cambiate rispetto a prima. È una sensazione molto profonda che sicuramente tutti abbiamo provato, ma è strano come, andando avanti con le esperienze, ti accorgi che questa stessa sensazione di straniamento sia sempre la stessa, anche nelle situazioni più disparate.
Hello, Darkness, my old friend... cantavano Simon e Garfunkel.
È una sensazione densa, oscura, cupa, e ti si piazza per prima cosa lì, sulla cassa toracica, tanto per farti ricordare che anche respirare non è una cosa così facile e scontata. Poi, alternativamente, può passare allo stomaco o alla testa; generalmente dipende da che tipo di persona sei e dal tipo di cosa che ti è appena capitata. A me, prende molto anche le gambe. Le sento flaccide. Non molli, chiaro. Mi sento come se tutta la pelle che c'è intorno sia inutile, solo un contorno. Poi passa alla faccia. Vorrei non avere guance, naso, bocca, vorrei non dover essere costretto ad assumere espressioni, vorrei essere un sasso, grigio e inespressivo.
E per quanto possa variare l'intensità di questa sensazione, lo capisci che è sempre lei.
La senti quando all'esame il professore ti chiede qualcosa che non sai, la senti quando ti si blocca il ginocchio, la senti quando tua nonna comincia a darti dei lei, e la senti quando ti ritrovi in una sala d'attesa d'ospedale, in compagnia di una persona che conosci e tanti sconosciuti.
Ogni volta che la senti è più o meno forte, ma la riconosci perché ha un suo marchio inconfondibile, e poi ogni volta ti sembra di ritrovare un vecchio amico, di cui non sentivi la mancanza, ma che in fondo è stato abbastanza dentro di te da farti ammettere che ti conosce bene.
Succede di solito in quei momenti che tu ti senta estremamente più vicino agli sconosciuti, però, piuttosto che a quell'unica persona che all'ospedale ti ci ha accompagnato. La persona che ti è vicino è lì per aiutarti, per non farti sentire solo, certo, ma non ha quel qualcosa negli occhi. È troppo distante da quello che stai provando per starti realmente vicino.
Non le si legge, negli occhi, quella sensazione che tu sai di avere ben dipinta sul volto, e che leggi chiarissima anche negli occhi degli altri.
Quella sensazione che, puf, un attimo prima andava tutto bene, e adesso invece, come un semplice clic di un pulsante, on-off, qualcosa è cambiato. In maniera netta.
Tu la senti. Sai che gli altri la sentono. Sai che siete inevitabilmente tutti legati da quella sensazione, e i vostri accompagnatori ne sono invece inesorabilmente chiusi fuori.
E in quel momento, con quegli altri sconosciuti, ci parli. Non con le onde sonore di una voce, ma con un altro tipo di onda comunicativa, che ti fa capire che tutti quanti avete in qualche modo dato il vostro commiato a qualcosa. Chi in maniera più o meno grave. Avete capito, e state piano piano accettando, che le cose sono cambiate. Questo percorso di accettazione è qualcosa di davvero unico di volta in volta e in ogni momento, e penso che ci sia qualcosa di poetico addirittura, in esso.
C'è stato un momento, anni fa, in cui ho avuto un brutto incidente. Ancora mi domando come sia stato possibile che nessuno si sia fatto male, quando potevamo tranquillamente lasciarci tutti le penne.
Di solito, quando mi capitava di raccontarne, dicevo sempre di ricordarmi nitidamente il "prima" e il "dopo", ma mai l'impatto del "durante".
In realtà, quel momento di quest'incidente mi è rimasto sempre in mente in maniera gelida e nitida, ma l'avevo sempre considerato come "fuori" dalla realtà dei fatti.
Ci si riferisce spesso a momenti e situazioni profonde come a un qualcosa che ti segna, che ti marchia: io in questo caso direi che ne sono stato ferito, tagliato, lacerato.
Sì, era sempre quella sensazione di prima: e credo di averla vista davvero in faccia per quella prima e, per ora, unica volta. Dicevo che esistono diversi gradi in cui la avverti, ma che capisci che è sempre lei. Ecco, quella volta, sono convinto, ho raggiunto quasi il fondo del pozzo, e l'ho vista. Ho visto lei, non una sua sfumatura.
Mi piace pensare, e credo effettivamente, di non aver visto davvero "lei", con i suoi reali contorni. Perché sono stato fortunato e sono ancora qui. Sono altri i momenti in cui, forse, puoi avere un contatto ancora più ravvicinato con questa sensazione.
Dicevo di questo... momento.
C'è stato questo momento in cui sono stato disconnesso dal tempo e dalla realtà.
E ho anche provato a chiedermi... ma come si fa a "ricordarsi"... una cosa che non c'è?
È stato un attimo. Un attimo brevissimo. Lo immagino come con la lucentezza dell'argento, ma al suo opposto, la sua antitesi.
È stato il momento dell'impatto. Giusto un battito di cuore. Credo di aver perso la mia individualità, per quel momento, e sentirmi a contatto dell'indefinito.
Non ho visto una luce, non ho visto un tunnel, non ho sentito della musica, non mi sono "visto" da fuori, né ho avuto un "best-of" della mia vita che mi scorreva davanti.
Questo, ho sentito. Il ritrovarmi ancora con quella sensazione, ora più forte che mai: e mi sono scoperto non spaventato. Mi sono accorto che era sempre lei, e mi sono accorto di averla in realtà già accettata altre volte, a piccole dosi, per cose meno importanti, come un esame andato male.
Mi sono ritrovato a guardare un freddo specchio che non rifletteva nulla. Era la buia, silenziosa, spassionata logica della fine.
La vita può davvero essere semplice come un pulsante: "On-off".
Ricordo che quando quel momento è passato, quando ho ricominciato a sentire cose dalle mie orecchie, quando ho cominciato a sentire la paura, le grida degli altri, e un po' di dolore, quando ho ricominciato a vedere cose intorno a me, ricordo una sensazione assurda e quasi inebriante di gioia.
Ero stato travolto dalla felicità di essere tornato da quel buco, e di essermi lasciato alle spalle quella sensazione di nulla, perché ero vivo, io ero reale, ero di nuovo reale dopo quell'attimo di zero assoluto.
Forse mi sono per un attimo affacciato sulla vera importanza delle cose.
Come anche un semplice sguardo possa essere significativo. Come un semplice "Sai, con te è le cose sono più divertenti" possa essere la cosa più bella del mondo.
Non so, francamente, perché tutte queste sensazioni mi siano tornate addosso ora.
So che l'ascoltare storie può avere un potere immenso, perché c'è un'immensa verità nelle storie che ti vengono raccontate, anche se si tratta di filmacci di paura o di horror di serie b. So che tutto questo viene detto solo "incidente", eppure guarda quanto c'è dietro.
Ma questa è un'altra storia, per un altro post che sto rimandando da diversi mesi, ormai.
Esiste una sensazione opposta a quella che, per un attimo, ho visto la sera di quell'incidente: la consapevolezza che, in realtà, noi tutti non siamo così diversi, anche se facciamo di tutto per frapporre distanze tra noi e gli altri.
E lo capisci quando, in ospedale, vedi gli sconosciuti farsi forza: sono solo quelli, gli attimi in cui capisci che le cose davvero importanti sono altre, come il contatto umano, la vicinanza con qualcuno che ti comprenda e che ti capisca...
... il bisogno di non sentirsi soli.
Forse mi è tornato tutto in mente ora perché sono giunto a questa conclusione.
Quella sensazione buia e fredda, quel sentirsi distaccati, è sempre la solitudine.
Una sensazione che è sempre in noi, perché siamo sempre soli, dal momento in cui veniamo al mondo fino a che ce ne andiamo. È la nostra scelta, quella di accompagnarci con qualcuno, di scegliere compagni di viaggio simili a noi, che ci capiscano, che ci confermino continuamente che no, che in realtà possiamo non essere soli, possiamo andare avanti, perché vale la pena farlo, anche solo per quell'attimo, quel sorriso, quello sguardo quando capisci che anche quello sconosciuto prova le stesse cose che provi tu.
E allora cazzo. Se prova le stesse cose che provi tu, non sei davvero solo.
Ed ecco che la paura più grande è sconfitta.
Non possiamo scappare dalla solitudine, non possiamo staccarla da noi e non possiamo annientarla, perché la solitudine è sempre con noi ed è in noi. Ma proprio perché è sempre con noi, altrettanto sempre possiamo affrontarla, fronteggiarla, contrapporle qualcosa, qualsiasi cosa. E sono davvero tante, le cose più belle di quella sensazione.
Anche questo è un qualcosa che trovo confortante. In qualunque momento si può fare qualcosa, con la solitudine, e non è mica qualcosa che puoi dire per molte altre cose.
Per questo non bisogna mollare mai mai mai.
Perché ci si sente soli, è vero: ma se ti senti solo è perché c'è una compagnia che ti manca.
Di solito, i buchi dei puzzle si riempiono.
Io, per esempio, sento che avrei ancora un paio di cose da scrivere, ma ho appena letto che su Rai 5 danno la replica di una bella intervista a Gigi Proietti.
Credo proprio che andrò a vedermela. E sono sicuro che quando avrò finito, non avrò più addosso la più che normale sensazione che ho addosso ora, che in effetti è tornata a farmi visita ancora. :-)
Grazie a tutti, per esserci.
sabato 22 settembre 2012
John Lennon aveva ragione
Stavo pensando che John Lennon aveva ragione, quando ha detto quella frase tipo "La vita è ciò che accade mentre sei intento a fare altri piani", o come cazzo era.
Perché i momenti in cui sto facendo altro, quelli in cui dovrei studiare per gli esami ad esempio, sono proprio quelli in cui sento ancora più voglia di essere riempito di umanità, di leggere, di guardare film, di stare in compagnia della gente. Non potendo farlo (non so che facoltà facciate voi, ma se fate Lettere, leggere durante la sessione d'esami è quanto di più sovversivo possiate raggiungere), mi limito ad acchiappare quello che viene.
Che, insomma, merita.
Perché i momenti in cui sto facendo altro, quelli in cui dovrei studiare per gli esami ad esempio, sono proprio quelli in cui sento ancora più voglia di essere riempito di umanità, di leggere, di guardare film, di stare in compagnia della gente. Non potendo farlo (non so che facoltà facciate voi, ma se fate Lettere, leggere durante la sessione d'esami è quanto di più sovversivo possiate raggiungere), mi limito ad acchiappare quello che viene.
Che, insomma, merita.
giovedì 6 settembre 2012
Proverbi
Da quando sei piccolo ti capita di sentire a ruota dei proverbi, che ormai non ci fai neanche più caso.
Più che rimandi a esperienze maggiori, sono gusci, frasi che usi lì quando semplicemente non sai cosa dire (o non hai voglia di dire nulla) e hai però bisogno di dire qualcosa.
"L'importante non è vincere, è partecipare".
"L'erba del vicino è sempre più verde".
"Chi trova un amico trova un tesoro".
"Non è tanto il freddo, è l'umidità".
Il bello diventa allora riscoprire i proverbi... al contrario. Quando ne hai sempre sentito uno senza mai davvero capirlo, e all'improvviso capisci che vuol dire una cosa piena, profonda.
"Partire è un po' morire".
Sì, ok, perché parti e ti dispiace, facile.
Avete presente quando muore qualcuno? Non so se è così per tutti, ma una delle primissime sensazioni che ricordo di aver provato relativamente al lutto è la sensazione che quella persona sia partita.
Sia andata lontano.
Non è qui, ma sicuramente da qualche parte sarà.
Il mondo è tanto grande.
Si sarà cacciata in un qualche angolo.
Magari una volta piglio l'aereo e la vado a trovare.
Solo che quella persona non c'è. Da nessuna parte.
Eh, bum. Lo dici giusto perché non posso controllare da tutte le parti.
Aspetta che mi scarico quell'app, e vedi che te la trovo.
Ecco perché "Partire è un po' morire"...
Ti trovi a vivere un ecosistema di rapporti, amicizie, impegni, piaceri, difficoltà, e ad un certo punto, puff, pigli l'aereo e tutto finisce. Cambi radicalmente. Da un giorno all'altro, quelle persone non ci sono più. Non passano più a trovarti mentre studi, non puoi più andarle a trovare, e tutte le cose che facevate insieme spariscono con loro.
E ti rimane una sensazione di vuoto che non è poi molto diversa da quella che scrivevo sopra...
Per fortuna, però, loro ci sono ancora, da qualche parte.
E, sempre per fortuna, basta davvero prendere un aereo.
(Tante parole per la testa. E ancora non vogliono uscire.)
Più che rimandi a esperienze maggiori, sono gusci, frasi che usi lì quando semplicemente non sai cosa dire (o non hai voglia di dire nulla) e hai però bisogno di dire qualcosa.
"L'importante non è vincere, è partecipare".
"L'erba del vicino è sempre più verde".
"Chi trova un amico trova un tesoro".
"Non è tanto il freddo, è l'umidità".
Il bello diventa allora riscoprire i proverbi... al contrario. Quando ne hai sempre sentito uno senza mai davvero capirlo, e all'improvviso capisci che vuol dire una cosa piena, profonda.
"Partire è un po' morire".
Sì, ok, perché parti e ti dispiace, facile.
Avete presente quando muore qualcuno? Non so se è così per tutti, ma una delle primissime sensazioni che ricordo di aver provato relativamente al lutto è la sensazione che quella persona sia partita.
Sia andata lontano.
Non è qui, ma sicuramente da qualche parte sarà.
Il mondo è tanto grande.
Si sarà cacciata in un qualche angolo.
Magari una volta piglio l'aereo e la vado a trovare.
Solo che quella persona non c'è. Da nessuna parte.
Eh, bum. Lo dici giusto perché non posso controllare da tutte le parti.
Aspetta che mi scarico quell'app, e vedi che te la trovo.
Ecco perché "Partire è un po' morire"...
Ti trovi a vivere un ecosistema di rapporti, amicizie, impegni, piaceri, difficoltà, e ad un certo punto, puff, pigli l'aereo e tutto finisce. Cambi radicalmente. Da un giorno all'altro, quelle persone non ci sono più. Non passano più a trovarti mentre studi, non puoi più andarle a trovare, e tutte le cose che facevate insieme spariscono con loro.
E ti rimane una sensazione di vuoto che non è poi molto diversa da quella che scrivevo sopra...
Per fortuna, però, loro ci sono ancora, da qualche parte.
E, sempre per fortuna, basta davvero prendere un aereo.
(Tante parole per la testa. E ancora non vogliono uscire.)
domenica 2 settembre 2012
Prisma
Mi piacerebbe che ci fossero più persone in grado di vedere la densità delle emozioni.
Sono quelle che vorrei avere accanto più di ogni altre.
Quelle che come un prisma prendono ciò che altri tentano di far passare per grigiore intorno a noi e sanno vederne i colori.
Non mollate mai mai mai.
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